mercoledì 21 febbraio 2007

Contro la società della paura

Paura del "diverso", di colui o coloro che rappresentano l'altro noi, come i nomadi (nella foto, un campo nomadi). Diversi per cultura, usanze, stile di vita. La reazioni di fronte ad una convivenza forzata possono essere diverse. Si possono bruciare le tende, fare presidi per costringerli ad andare via. Per paura. E' successo ad Opera, comune alle porte di Milano, dove 77 rom sono letteralmente fuggiti ed ora sono a Parco Lambro, ospiti di Don Colmegna. Rinnegare il futuro che, invece, è già presente. E' questo il punto di partenza della riunione, organizzata martedì 20 febbraio alla Sala della Provincia di Via Corridoni, dal giornalista Gad Lerner e dal sociologo Aldo Bonomi, che ha visto la partecipazione di circa trecento persone (ma la sala era mezza vuota). Un incontro aperto al pubblico per discutere di un problema che riguarda tutti, non solo gli abitanti di Opera e la settantina di nomadi andati via. "Una cosa come Opera non è mai capitata - apre così l'incontro Lerner - si tratta della comunità dei molti che hanno paura dei pochi". I pochi sono appunto i nomadi che, al contrario di ciò che si pensa, "rappresentano il riferimento simbolico del nostri futuro, il futuro dei deterritorializzati", commenta il filosofo Umberto Galimberti. Ma se il nomadismo è il nostro futuro, non si può negare che il presente pone una serie di problematiche concrete che si chiamano luce, acqua, casa per il popolo dei rom. "La soluzione del campo di Triboniano ci fa capire che si può, si può convivere con un patto tra le parti", ha affermato l'assessore Mariolina Moioli riferendosi al patto di legalità firmato tra la popolazione rom e il Comune di Milano. "Ma la solidarietà non basta - sostiene una mediatrice culturale di origine rom - bisogna partire dalla convinzione che non esistono eletti e inferiori. Il patto di solidarietà riconosce i rom come diversi e quindi come destinatari di un trattamento differenziato". Già ma allora come fare, come arginare la violenza dei "professionisti della paura della diversità" e realizzare una vera integrazione? La domanda sembra un appello rivolto alla borghesia milanese, quella che vive la città "ma che spesso non la vive", come dice il sociologo Aldo Bonomi.

"Dobbiamo interrogare la gente che prende l'aereo e viaggia nel mondo - continua Bonomi - in modo che torni ad occuparsi di questa città". Si potrebbe partire dalle banche e dalle fondazioni che girano intorno ai grandi istituti di credito. "Noi - interviene Paola Pierri della Unicredit di Milano - non siamo solo la banca di Piazza Cordusio, non possiamo scegliere quale parte di Milano ci piace e quale no. Abbiamo lavorato con Don Colmegna, sappiamo che c'è un percorso da seguire, forse ancora da individuare, senza però distogliere lo sguardo dalla realtà". Un invito rivolto anche alle istituzioni culturali. Risponde Davide Rampello, presidente della Fondazione della Triennale: "Il nostro obiettivo è valorizzare i concetti di meticciato, migrazione e contaminazione, il vero alimento del XI secolo". Reinventare la culture e ripensare anche i meccanismi della finanza, dell'arte e delle fiere. A dirlo il presidente della Fondazione Fiera, Luigi Roth che commenta: "Il rilancio del territorio passa attraverso la condivisione nel rispetto dei ruoli e delle responsabilità. Ma non si può affidare tutto alla 'Casa di carità' di Don Colmegna". Ognuno deve fare la sua parte: cittadini, privato, fondazioni, banche, centri culturali, artisti. Con un obiettivo: ripensare la città. Contro tutte le emarginazioni. "In fondo - ricorda Bonomi - nella città transitano ogni giorno un milione e mezzo di city user e non ci sono problemi. I numeri non sono apocalittici in rapporto a quello che è successo a Opera. Parliamo di 7mila nomadi e 3mila homeless". Dietro le parole, nessuna bandiera, nessun colore politico. Era evidente che tra il pubblico e i relatori non batteva nessun cuore leghista, ma è altrettanto vero che la presenza di politici, giornalisti, abitanti di Opera, religiosi, volontari, imprenditori e rappresentanti di fondazione bancarie all'incontro, organizzato da un giornalista e da un sociologo, ha un significato preciso: esiste una borghesia che di fronte ai fatti di Opera, che comincia a interrogarsi e che promette impegno. E che per un momento "interrompe le pur appassionanti discussioni sul partito democratico",sentendo il bisogno di interrogarsi su cosa stia succedendo ai suoi simili e se non stia usando la sua diversità come valvola di sfogo delle nuove fobie.

sabato 10 febbraio 2007

Donne tutte casa, letto e chiesa

Lo spettacolo di Marina De Juli al teatro Libero fino al 13 febbraio
Donne tutte casa, letto e chiesa
La solitudine al femminile tra ironia, riflessioni e confessioni

Quante donne sanno fingere un orgasmo? E quanti uomini se ne sono mai accorti? Lo spettacolo di Marina De Juli, “Tutta casa, letto e chiesa”, liberamente tratto dall’opera di Franca Rame scritta insieme al marito Dario Fo circa 30 anni fa, fino al 13 febbraio al teatro Libero di Milano, chiude con un esilarante “istruzioni per l’uso” rivolto a tutte le donne che vogliono fare finta di. Può succedere che non sia la serata giusta, ma quando la solita scusa del mal di testa non funziona più e il marito-compagno-l’avventura di una notte domanda con insistenza non c’è soluzione che tenga, a meno che non si voglia porre la parola fine al rapporto. Il binomio “donne e emarginazione”, spesso un enigma per il maschio, ha fatto da fil-rouge nei diversi monologhi interpretati dalla De Juli. C’è l’operaia stressata che deve alzarsi la mattina per andare a lavorare, ma prima deve sistemare il figlio e pensare al marito. Perde le chiavi, confonde lo zucchero con il bicarbonato, utilizza lo spray argento come deodorante ed esce pazza. La responsabilità della casa è tutta sulle sue spalle e la solitudine incombe. “La donna sola” è, per l’appunto, il titolo del primo monologo. Protagonista è una moglie che ha tutto all’interno della propria casa, vive secondo i canoni della tv ma non ha la cosa più importante per un rapporto di coppia: il rispetto del marito. Così un giorno conosce la dirimpettaia e un incontro casuale diventa l’occasione per confessarsi e per raccontare l’unico tradimento della sua vita, con un ragazzo maestro d’inglese, spia di un’insoddisfazione latente. Il sesso è l’argomento principe della seconda parte dello spettacolo. Se ne parla attraverso un’antica giullarata rivista da Dario Fo dal titolo “La parpaja topola”, pièce tra il comico e il grottesco che si dipana fra un’ironia sapiente e uno slancio alla riflessione. Tutto visto con gli occhi delle donne che, nonostante lo stress e la solitudine di un mondo non proprio amico delle mamme-mogli-lavoratrici, sanno ridere delle loro sventure e delle eccessive responsabilità che devono affrontare giorno dopo giorno. Il finale è affidato alla lezione di orgasmo, nel classico stile Franca Rame, tratta da “Sesso, grazie tanto per gradire”. Tutto lo spettacolo porta la firma di Marina De Juli che presenta sul palcoscenico (il primo teatro che l’ha vista protagonista in uno spettacolo, venti anni fa) una sintesi dell’eclettico modo di fare teatro della coppia Fo-Rame. Una coppia sempreverde. Che fa dell’ironia il modo sapiente per raccontare la quotidianità al femminile. Il pubblico apprezza e ride. Ma quando va via la luce, è il momento della riflessione. Perché l’obiettivo della De Juli, come diceva Moliere, è quello “di piantare chiodi nella testa degli spettatori”. Un chiodo per ogni risata. Con un pizzico di sano sarcasmo.

giovedì 8 febbraio 2007

Storia di una cena al buio

La carne aveva un sapore strano e le patate erano piuttosto salate. Il riso, poi, era fin troppo cotto. Eppure la cena è stata un successo. Tutta al buio, dalla prima all’ultima forchettata, dal primo sorso di acqua all’ultimo di birra in un pub di Como che ospitava la serata organizzata dal Rotaract “Brianza Nord” e dal gruppo milanese dei Disabilincorsa. Ragazzi ciechi con vite normali che durante i weekend fanno i camerieri. L’obiettivo è sensibilizzare i convitati che vivranno, seppur soltanto per qualche ora, la loro quotidianità. Saranno proprio i ragazzi non vedenti ad aiutare noi vedenti: ci aiutano a sistemare il cibo, ci accompagnano al tavolo e in bagno. Ci prendono per mano, dopo aver attraversato l’anticamera in penombra e facciamo ingresso, in fila indiana, nel loro mondo: il buio. Pesto. Sono il rumore ed il palato a comandare per qualche ora. Non si vede cosa c’è nel piatto, si scopre tutto poco alla volta. Anche tastando lo stesso cibo. E scatta il gioco, un indovinello lungo un sera. “Cosa ci sarà mai nel riso?”, domando a Silvia, 35enne del posto. In sala siamo sistemati senza un’organizzazione precisa. Non puoi vedere il tuo vicino a tavola, puoi soltanto sentire i suoi rumori, la sua voce e immaginare il colore dei capelli, quelli degli occhi, la forma del suo naso. Cerchi di intuirlo attraverso il suono delle parole. Diventa quello l’unico mezzo di comunicazione. Dà un senso di libertà, anche se psicologicamente è difficile accettarlo. Ti fanno male gli occhi e non riesci a tenerli chiusi per non soffrire. Il cervello sembra andare in tilt. Non vuole abituarsi alla “extraordinarietà”, ed è comprensibile. Non resta che reagire, dopo i primi minuti di totale smarrimento. E così ti trovi a parlare con perfetti sconosciuti di te, della tua vita. C’è Massimiliano di fronte a me. L’ho visto prima di entrare (ci hanno divisi in gruppi da sei). Ha 25 anni, è prossimo alla laurea in ingegneria ed è lì con la sua ragazza, Bianca, studentessa di matematica e con il fratello di lei, Edoardo o meglio Dodo, 16 anni, seconda liceo scientifico. Dodo non mangia nulla, tranne la prima portata. Non è convinto, non
può vedere cosa c’è nel piatto e non si fida. Così gli passa l’appetito. Con Gabriella e Silvia, alla mia sinistra, si inizia a discutere di tutto. Non vedersi implica una maggiore libertà nel parlare? La risposta, dopo l’esperienza della cena al buio, è un sì deciso. Nessuno sembra avere remore, si dà libero sfogo ai pensieri. Parliamo di uomini. Per esempio – è la domanda - come mai gli uomini milanesi sembrano “dormire”? Le mie vicine comasche rispondono senza esitazioni, dando voce alle loro teorie. In fondo, sono state proprio Silvia e Gabriella ad iniziare, domandando della mia vita sentimentale. E così, mentre cerchiamo di tagliare la carne nel piatto, parliamo della nostra quotidianità. Ci raccontiamo senza problemi. Si fa presto a dire: non ho fame. Se l’occhio non ha la sua parte, lo stomaco si chiude. Piuttosto che mangiare si preferisce discutere. Intorno è tutto un fiume di parole, parole, parole. Tanto che, se qualcuno resta in silenzio per più di un minuto, gli altri si preoccupano. I sensi si affinano. Ci si tocca, ci si interroga sulla disposizione degli altri tavoli, si versa l’acqua con molta attenzione, lentamente. Non puoi quantificare quasi nulla. Anche il liquido nel bicchiere va “sentito”. I ragazzi ipovedenti danno consigli. Sono lì soprattutto per quello. Arrivano al tavolo e si aiutano toccando le spalle degli ospiti. Ari è velocissima, Michele e Claudia sono i più gentili. Sono due trentenni milanesi. Lei lavora in Tribunale, lui è impiegato. Ad ottobre si sposeranno. Lo annunciano durante la cena. Partono gli applausi e diventano i protagonisti della serata al buio. Sono ciechi da sempre, ma sanno gestirsi in perfetta autonomia. Michele fa spesso jogging con un volontario dell’associazione. “E’ lui il più veloce – racconta quest’ultimo– quando corriamo insieme sono io il vero disabile”. A mezzanotte si riaccendono le luci. Noi torniamo alla normalità. Ci sembra di rinascere. Per i nostri camerieri, invece, non cambia nulla. Ogni cena, per loro, è una cena al buio.