La bandiera rossa è del 1921 ed è consumata ai lati. A reggerla con orgoglio è la moglie di un vecchio comunista dal sorriso sgangherato. Fermo ad un angolo, urla parole incomprensibili ai manifestanti del corteo vicentino mostrando la foto, incorniciata, di un soldato vietnamita prossimo al patibolo. Erano gli anni ’70, quando in Italia c’era Lotta Continua, Potere Operaio e Adriano Sofri aveva già avuto a che fare con il carcere (“Sofri libero” recitava una scritta all’università statale di Pisa, trent’anni fa). Poi c’erano quelli come Oreste Scalzone, tornato da qualche giorno in Italia, dopo una latitanza lunga vent’anni. Era in testa al corteo di sabato, ma la sua figura si confondeva fra i centomila, gli ottantamila o i duecento mila presenti.
I numeri poco contano se dalle strade centrali di Vicenza quello che rimbomba non è soltanto uno slogan quanto il colore delle bandiere, il suono di una banda, le musiche dei Sud Sound System e i “Bella ciao”. L’età media dei manifestanti non è alta. Ci sono i collettivi universitari, le associazioni studentesche. C’è Bryan (a dispetto del nome è una ragazza, italiana, che è partita con il treno “Strike war express”, alle 11:43, (40 minuti di ritardo) dalla stazione centrale di Milano. Bryan contesta i ragazzini “sbarbatelli” dei Cantieri, centro sociale milanese, perché “non sanno neanche cosa siano la Nato e l’Onu”. Con lei c’è Cristian. Studiano alla Statale, scienze politiche. Li incontriamo in metropolitana, mentre imprecano contro l’Italia “suddita degli States”, per ritrovarli sul convoglio messo a disposizione da Trenitalia all’ultimo momento, perché l’Intercity delle 11:05 straripava di gente e non si poteva partire. Sul treno organizzato dai collettivi non ci sono solo studenti ma anche operai, donne e uomini adulti che “sentono il dovere” di andare a Vicenza. Carla, 50enne della provincia di Pavia, è molto determinata. “Vado alla manifestazione – dice – per solidarizzare con le mamme vicentine perché i loro figli si ritroveranno con le bombe sotto il culo”. Carla ha una treccia che raccoglie i capelli bianchi e una borsa indiana. E’ figlia di un sopravvissuto dalla Russia e nipote di un uomo che aveva combattuto sul Piave ma che aveva rifiutato la medaglia di cavaliere di Vittorio Emanuele perché “io cavaliere? Prima datemi un nuovo asino”. Vive in montagna, e a 24 anni ha deciso di diventare vegetariana. “La rivoluzione parte dalla carne”, racconta a Davide, trentenne pugliese impiegato alla Electrolux di Milano, a Hulisses, operaio ecuadoriano antiamericano convinto e a Mara che è partita da Torino. La tesi è assai bizzarra. “Ma è così – sgrana gli occhi, inviperita – perché per nutrirci e per nutrire gli animali bisogna coltivare la terra di altri. Ma la terra è di tutti!”. Davide sorride, non riesce a starle dietro e preferisce leggere il Manifesto. La città veneta scaldata da un sole primaverile è uno straripare di ciclostilati: “Resistenza”, “Falce e martello”, “La Comune”, “Umanità”, “Umanità nova”. Servono a finanziare i gruppi che da Firenze, Roma, Milano, Pescara e Napoli sono arrivati in Veneto. I primi pullman stracarichi, parcheggiati non molto lontano da Campo Marzio, dove finisce il giro del corteo, sono arrivati alle otto di mattina. La manifestazione parte quando arrivano gli ultimi gruppi da Milano, molto prima delle 14.30, l’orario ufficiale. Non ce la fa Vicenza ad aspettare, sono in troppi. Il serpentone sfila tra edifici silenziosi. Sui balconi non c’è quasi nessuno. Poche teste sbucano da dietro le tende, quasi furtivamente. Qualcun altro, invece, osserva dal marciapiede. “Sono preoccupato – dice Tommaso Zorretto, pensionato del ’32, elettore di centrosinistra – perché Vicenza diventerà un presidio militare e come me lo sono tanti altri vicentini che alle Politiche hanno votato diversamente. “E infatti – chiosa la moglie alla sua sinistra – tanti del centrodestra hanno tirato su il naso”. “No, non c’entrano le appartenenze politiche con la base militare”, concludono questi signori in cappotto, in evidente contrasto con gli “alternativi” – capelli rasta, sciarpe colorate e scarpe Converse (made in Usa) ai piedi - che sfilano in Via D’Alvino. “Il comunismo è stato applicato male”, dice un ragazzo di Modena ad un anziano che regge la bandiera dell’Anpi, con una bottiglia di vino rosso in mano. “Ma tu sai cos’è l’Anpi?”, gli domanda quest’ultimo, senza malizia. Silenzio. Più avanti un coro di ragazzi urla: “Lotta di classe/ e vincono le masse”.
“Eh già – commenta un romano di mezza età con i colleghi – poi quando diventi come Veltroni, te riconosco”. Nel cielo passano gli elicotteri della Polizia. Si avvicinano alla folla, durante il discorso finale di Dario Fo, e partono i fischi. Fischi contro il Governo e la presenza americana in Italia. “Yankee, go home”, sui cancelli delle ville vicentine. “Prodi ripensaci”, sui cartelli dei manifestanti. Aurora, 4 anni, sorride. La mamma le ha disegnato sulla fronte la parola “pace” in rosso, giallo, blu e verde. Aurora non sa di essere una delle più giovani manifestanti a Vicenza. E’ troppo piccola anche per capire parole come Lockheed, aerei cacciabombardieri, Afghanistan, ripetute da Dario Fo e Franca Rame più volte in un discorso che le tv nazionali non hanno trasmesso. Il buio arriva presto e sul palco si accendono le luci. Ma alle 19 la gente stanca inizia ad andare via. Qualcuno resta avvolto nelle bandiere colorate della manifestazione “No Dal Molin” che continuano a sfilare sui treni affollati. Arrivano dentro le case della periferia veneta, nelle grandi metropoli e in regioni più lontane. Per un giorno Vicenza è senza confini.
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