mercoledì 20 dicembre 2006

Tv dei bimbi, che paura

Urla, scale pericolanti, ragnatele, teste mozzate, buio. I tre bambini sono nel "castello della paura". E' tutto artificiale, creato in studio, ma loro non lo sanno. Proiettati in un’atmosfera gotica, in quella che dovrebbe essere la notte del terrore. Hanno stretto un patto prima di varcare la soglia: arrivare all’alba del giorno dopo resistendo alla tentazione della fuga. I produttori di "Scary Sleepower" hanno previsto situazioni limite e se la fifa è troppo forte, tanto da divenire insopportabile, basta premere un bottone, il bottone antipanico, e si è fuori alla luce, tra le braccia di mamma e papà. Ma la sfida è proprio quella: cercare di sopravvivere all’istinto della fuga.


A fare da collante è la regola fondamentale del gioco: se uno dei tre protagonisti preme il bottone, anche gli altri sono costretti ad uscire. Il cuore del gioco è lo spirito di squadra e il desiderio di non sentirsi inferiore agli altri. E se il buio fa paura, se fa chiudere lo stomaco fino alla nausea, ci si ritrova tutti e tre, abbracciati, nella stessa stanza. Poi c'è l’occhio esterno del presentatore che commenta le reazione all’insaputa dei protagonisti, tutti tra i 9 e gli 11 anni. Sono inglesi, come la produttrice del programma, Emma Walsh, e la tv che trasmette ogni pomeriggio alle 16 il programma, la Itv. E' Anne Brogan, responsabile del controllo dei programmi per ragazzi, a raccontare l’esperienza di successo di Itv durante il secondo giorno di "Ragazzi, che tivù", evento organizzato dal 24 al 26 novembre dal Corecom Lombardia, presso la Triennale a Milano. Il reality britannico della paura, formula originale e di successo, non è stato immune da critiche. Primo aspetto sotto accusa: il meccanismo "perverso" della ricompensa.


Mentre sono nel "castello della paura" i ragazzi devono superare tre prove che daranno loro diritto a ricevere piccole gratificazioni utili per sopravvivere alla nottata. Per vincere il premio principale (di solito una giornata in un parco giochi) devono arrivare al "canto del gallo". Mamme e papà hanno storto la bocca, guardando la prima puntata. Non sono mancate, infatti, reazioni negative alla messa in onda di "Scary Sleepower". "Sono situazioni psicologiche pericolose", hanno detto associazioni di genitori e psicologi. E il legislatore non è stato lì a girarsi i pollici. Il programma è stato anticipato di una mezz'ora, ma i motivi di tale decisione non sono del tutto chiari. Tuttavia i sondaggi e gli studi ad hoc parlano chiaro: ai bambini piace avere paura e vogliono reality paurosi. Chiedono di partecipare, ingranaggi di una macchina per l’audience. "No, niente sfruttamento – ha affermato Brogan – prima di mettere in onda il programma abbiamo invitato i protagonisti ad una sessione orientativa. Abbiamo lavorato in modo che fossero sempre loro a decidere". Bambini padroni del gioco e adulti semplici osservatori: davvero si sono ribaltati i ruoli? La produzione europea di tv per ragazzi risponde sì e lo fa scegliendo il format del reality.


"Piece of cake", programma della Kro Netherlands, trasforma i ragazzini in piccoli cuochi, mentre il norvegese "Children super show" testa le capacità degli adolescenti nel fare squadra in situazioni difficili come il contesto dell’isola deserta. "Aumenta l’autostima e migliora le loro competenze, il loro saper fare", sostiene l’ideatore del programma, Vibeke Furst Haugen della Nrk Norway. Il trait d’union delle diverse esperienze è, in sostanza, sempre lo stesso: la formula del reality che mette alla prova i piccoli. La chiedono i bambini e i produttori li accontentano, ma risulta poco attraente per alcuni inserzionisti pubblicitari, soprattutto quelli inglesi, che devono combattere con i numerosi paletti imposti dalla legge. Il bambino vuole avere paura, vuole sopravvivere in luoghi sperduti, vuole imparare a cucinare, e tuttavia va protetto dagli spot "nocivi". Niente violenza, niente cibo spazzatura, niente sesso. Solo curiosità, stimoli alle riflessioni e all’approfondimento, spirito critico: questa è la tv di qualità, questa sembra essere la tv europea.

domenica 10 dicembre 2006

Storia d'America raccontata dal genio della foto

Ritratti di celebrità e volti di sconosciuti catturati negli attimi di vita quotidiana: quella di gente sparsa nei cinque continenti.
Non è solo America, terra fonte di mille ispirazioni, i quartieri di gente di colore, la donna borghese degli anni '50 che sorride, le scarpe bianche vintage e l'uomo col blue jeans.
E' anche il Messico di quaranta anni fa (ma diresti che sembra quello di oggi), la coppia francese lungo la riva del Senna, le vie anonime dell'Aquila, i riti con danze, canti e pantomima in Indonesia: fotografie che raccolgono l'intensità drammatica dello spettacolo violento.
Poi c'èil delirio della folla indiana, poco prima della morte di Ghandi, le lacrime della gente comune durante i funerali delle vittime di Charonne (Parigi) nel 1962, il pastore di Scanno (Abruzzo) con il suo mantello coloro pece.
E' tutto in bianco e nero: la dicotomia che serve per "catturare ogni istante".
Ci si immagina Henri Cartier Bresson ad aspettare il momento, quello giusto, quando il tramonto o l'alba fanno venir fuori l'ombra più adatta per raggiungere il suo scopo.
La mostra dedicata all'artista, allestita al centro Forma, in piazza Tito Lucrezio Caro, apre lo spazio dedicato al famoso fotografo, nato a Chanteloup nel 1908 e morto a l'Isle sur la Sorge nel 2004, con un interrogativo al quale cerca di rispondere: "Henri Cartier Bresson. Di chi si tratta?".
"Nessuna mostra - ha affermato Robert Delpine, curatore dell'intera opera - ha presentato una scelta così ampia e diversificata rispondendo a questa domanda. Sono ricordi di vita, il ritratto dell'uomo più fedele alla realtà, oltre il mito".
Quattro sale, divise per continenti, con oltre 200 stampe contemporanee (tra cui alcuni inediti), 50 stampe vintage (originali d'epoca), con una sezione dedicata ai classici, rappresentano il ritorno a Milano delle opere di Bresson, a tre anni dall'ultima apparizione in città.
Ma non sono esposte soltanto foto. Ci sono anche schizzi, disegni e frasi scritte a mano dall'artista che inizia il suo percorso formativo frequentando, a quindici anni, lo studio di Andrè Lhote e i Surrealisti.
Poi viaggia, tantissimo. Sempre con un solo obiettivo: fotografare la vita, il mondo, "il momento decisivo". Della sua attività, che lo ha portato a fondare con Robert Capa e David Seymour, la famosa agenzia "Magnum", lui però dice: "Non ho nessun messaggio da rilasciare, nulla da provare: vedere e sentire ed è l'occhio sorpreso a decidere".

sabato 9 dicembre 2006

Storia di un successo a metà

Manifestanti e gente normale in piazza. La prima della Scala tra vip e polemiche
E in Galleria gli applausi sono tutti per Zeffirelli


Carlo ha 53 anni e due figli ventenni, lavoratori precari. Dal 1976 ogni mattina, alle 7, varca la soglia dello stabilimento dell’Alfa Romeo ad Arese. Fa il tecnico progettista, “un bel lavoro”. Negli anni ‘80 ha comprato qualche azione della Fiat. “Anche noi andiamo alle riunioni – racconta senza nascondere l’ironia – non contiamo molto, ma facciamo sentire la nostra voce”. Non è stato zitto, il signor Carlo, neanche ieri sera, davanti alla Scala. Era con i colleghi e i sindacalisti della Flm Uniti Cub, dietro le transenne, lontano dalla zona riservata al passaggio dei vip, dei politici, dei fortunati con il posto prenotato per la prima del teatro milanese. La pioggia ed il freddo non hanno fermato né i curiosi, né i manifestanti. C’è la coppia di anziani in attesa dalle due del pomeriggio. “Non siamo qui per i politici e le attrici - dicono con orgoglio – ma soltanto perché la prima della Scala è un evento importante per la nostra città”. “Sono venuta per l’Aida di Verdi – chiosa una donna alla loro destra – perché Verdi è nato nel mio stesso paese”. Ma quando passa Valeria Marini, è tutto un coro. E’ avvolta in un vestito nero con una profonda scollatura. La sua schiena non sembra temere l’umidità di Milano. Ha anche un fiore tra i capelli. La Iena Enrico Lucci si fionda sulla bionda, prima che scompaia tra le guardie del corpo. Ed è così per tutti gli altri: Fanny Ardant, il presidente dell’Inter Moratti, gli assessori comunali e soprattutto per la cancelliera tedesca Angela Merkel che in teatro siederà tra Prodi e il sindaco Letizia Moratti. Il nero resta il colore della serata, nonostante il bianco di lunghi vestiti e i foulards dorati che vogliono riprendere il colore scelto da Zeffirelli per questa sua Aida, dopo tanti anni di assenza. Scuri i vestiti, scuro anche il cielo della città contro le luci delle telecamere che rincorrono le star nei taxi e quelle del teatro nel giorno della sua festa. Uomini in frac e donne con capelli vaporosi da una parte, gli operai con le sciarpe di lana dall’altra, a qualche decina di metri. In mezzo i curiosi. C’è chi sostiene la protesta dei manifestanti: “Fanno bene a criticare la Finanziaria - dice uno fra i tanti – perché alla fine penalizza sempre le stesse persone”. “Prodi non deve dimenticare che è stato votato dal popolo”, grida un pensionato mentre la signora Flavia scende velocemente dall’auto blu e rischia di far scivolare la borsetta sulle rotaie del tram. “Si sono dimenticati di noi, vogliono trasformare Arese in un grosso centro commerciale con quartieri residenziali”, protesta un operaio quando entra Formigoni. Suona la musica popolare, mentre in teatro la bacchetta di Chailly disegna le sue curve nell’aria. Le prime note dell’Aida fanno allontanare i giornalisti dall’ingresso della Scala: la sfilata dei vip è finita, per loro è il momento di godersi lo spettacolo sulle poltrone di velluto rosso. Anche la gente va via, silenziosamente, con tranquillità. Chi è davvero in piazza per l’opera di Verdi si trasferisce in Galleria, dove il Comune ha fatto installare un maxi schermo. Durante la pausa, le telecamere in teatro spostano l’obiettivo sui presenti. E’ il momento dei commenti. “Un punto in più alla Moratti, anche se non l’ho votata”, afferma soddisfatto un quarantenne che abita in periferia. “Questi eventi aprono il cuore”, dice la moglie, quasi commossa. C’è chi resiste tre ore e mezzo in piedi. Dalle polemiche agli applausi. Sono tanti, tantissimi, fuori e dentro il teatro, soprattutto per il Maestro e il Direttore. “Bravi, bravi!”, urla qualcuno davanti al maxischermo. E’ la voce popolare, uno spicchio di anima della metropoli settentrionale.

venerdì 20 ottobre 2006

"No dal Molin", storia di una manifestazione

La bandiera rossa è del 1921 ed è consumata ai lati. A reggerla con orgoglio è la moglie di un vecchio comunista dal sorriso sgangherato. Fermo ad un angolo, urla parole incomprensibili ai manifestanti del corteo vicentino mostrando la foto, incorniciata, di un soldato vietnamita prossimo al patibolo. Erano gli anni ’70, quando in Italia c’era Lotta Continua, Potere Operaio e Adriano Sofri aveva già avuto a che fare con il carcere (“Sofri libero” recitava una scritta all’università statale di Pisa, trent’anni fa). Poi c’erano quelli come Oreste Scalzone, tornato da qualche giorno in Italia, dopo una latitanza lunga vent’anni. Era in testa al corteo di sabato, ma la sua figura si confondeva fra i centomila, gli ottantamila o i duecento mila presenti.
I numeri poco contano se dalle strade centrali di Vicenza quello che rimbomba non è soltanto uno slogan quanto il colore delle bandiere, il suono di una banda, le musiche dei Sud Sound System e i “Bella ciao”. L’età media dei manifestanti non è alta. Ci sono i collettivi universitari, le associazioni studentesche. C’è Bryan (a dispetto del nome è una ragazza, italiana, che è partita con il treno “Strike war express”, alle 11:43, (40 minuti di ritardo) dalla stazione centrale di Milano. Bryan contesta i ragazzini “sbarbatelli” dei Cantieri, centro sociale milanese, perché “non sanno neanche cosa siano la Nato e l’Onu”. Con lei c’è Cristian. Studiano alla Statale, scienze politiche. Li incontriamo in metropolitana, mentre imprecano contro l’Italia “suddita degli States”, per ritrovarli sul convoglio messo a disposizione da Trenitalia all’ultimo momento, perché l’Intercity delle 11:05 straripava di gente e non si poteva partire. Sul treno organizzato dai collettivi non ci sono solo studenti ma anche operai, donne e uomini adulti che “sentono il dovere” di andare a Vicenza. Carla, 50enne della provincia di Pavia, è molto determinata. “Vado alla manifestazione – dice – per solidarizzare con le mamme vicentine perché i loro figli si ritroveranno con le bombe sotto il culo”. Carla ha una treccia che raccoglie i capelli bianchi e una borsa indiana. E’ figlia di un sopravvissuto dalla Russia e nipote di un uomo che aveva combattuto sul Piave ma che aveva rifiutato la medaglia di cavaliere di Vittorio Emanuele perché “io cavaliere? Prima datemi un nuovo asino”. Vive in montagna, e a 24 anni ha deciso di diventare vegetariana. “La rivoluzione parte dalla carne”, racconta a Davide, trentenne pugliese impiegato alla Electrolux di Milano, a Hulisses, operaio ecuadoriano antiamericano convinto e a Mara che è partita da Torino. La tesi è assai bizzarra. “Ma è così – sgrana gli occhi, inviperita – perché per nutrirci e per nutrire gli animali bisogna coltivare la terra di altri. Ma la terra è di tutti!”. Davide sorride, non riesce a starle dietro e preferisce leggere il Manifesto. La città veneta scaldata da un sole primaverile è uno straripare di ciclostilati: “Resistenza”, “Falce e martello”, “La Comune”, “Umanità”, “Umanità nova”. Servono a finanziare i gruppi che da Firenze, Roma, Milano, Pescara e Napoli sono arrivati in Veneto. I primi pullman stracarichi, parcheggiati non molto lontano da Campo Marzio, dove finisce il giro del corteo, sono arrivati alle otto di mattina. La manifestazione parte quando arrivano gli ultimi gruppi da Milano, molto prima delle 14.30, l’orario ufficiale. Non ce la fa Vicenza ad aspettare, sono in troppi. Il serpentone sfila tra edifici silenziosi. Sui balconi non c’è quasi nessuno. Poche teste sbucano da dietro le tende, quasi furtivamente. Qualcun altro, invece, osserva dal marciapiede. “Sono preoccupato – dice Tommaso Zorretto, pensionato del ’32, elettore di centrosinistra – perché Vicenza diventerà un presidio militare e come me lo sono tanti altri vicentini che alle Politiche hanno votato diversamente. “E infatti – chiosa la moglie alla sua sinistra – tanti del centrodestra hanno tirato su il naso”. “No, non c’entrano le appartenenze politiche con la base militare”, concludono questi signori in cappotto, in evidente contrasto con gli “alternativi” – capelli rasta, sciarpe colorate e scarpe Converse (made in Usa) ai piedi - che sfilano in Via D’Alvino. “Il comunismo è stato applicato male”, dice un ragazzo di Modena ad un anziano che regge la bandiera dell’Anpi, con una bottiglia di vino rosso in mano. “Ma tu sai cos’è l’Anpi?”, gli domanda quest’ultimo, senza malizia. Silenzio. Più avanti un coro di ragazzi urla: “Lotta di classe/ e vincono le masse”.
“Eh già – commenta un romano di mezza età con i colleghi – poi quando diventi come Veltroni, te riconosco”. Nel cielo passano gli elicotteri della Polizia. Si avvicinano alla folla, durante il discorso finale di Dario Fo, e partono i fischi. Fischi contro il Governo e la presenza americana in Italia. “Yankee, go home”, sui cancelli delle ville vicentine. “Prodi ripensaci”, sui cartelli dei manifestanti. Aurora, 4 anni, sorride. La mamma le ha disegnato sulla fronte la parola “pace” in rosso, giallo, blu e verde. Aurora non sa di essere una delle più giovani manifestanti a Vicenza. E’ troppo piccola anche per capire parole come Lockheed, aerei cacciabombardieri, Afghanistan, ripetute da Dario Fo e Franca Rame più volte in un discorso che le tv nazionali non hanno trasmesso. Il buio arriva presto e sul palco si accendono le luci. Ma alle 19 la gente stanca inizia ad andare via. Qualcuno resta avvolto nelle bandiere colorate della manifestazione “No Dal Molin” che continuano a sfilare sui treni affollati. Arrivano dentro le case della periferia veneta, nelle grandi metropoli e in regioni più lontane. Per un giorno Vicenza è senza confini.

sabato 30 settembre 2006

Storia di un fiume pericoloso

da "PrimoPiano"
CAMPOBASSO - II fiume Volturno è uscito fuori dagli argini e ha provocato non pochi danni. E' una notizia di qualche giorno fa, quando il maltempo ha interessato il Molise, e da montagna a valle ha portato con sé danni di non poca entità. Come quelli a Castel San Vincenzo; l'area archeologica del posto, studiata e ammirata da esperti di tutto il mondo nel suo grandioso particolare quale la famosa Abbazia, è stata inondata dalle acque del fiume pentro. Uno scempio che, secondo il consigliere Ds, Antonio D'Ambrosio, poteva essere evitato. Forte lo sdegno da parte del diessino alla Regione: dito puntato contro tutti coloro che potevano intervenire e che, invece, sono rimasti fermi ad assistere all'impietoso evento. Molte le misure che potevano essere adottate per difendere il territorio onde evitare lo straripamento del fiume, già preannunciato dallo stesso D'Ambrosio. "II grave disastro ambientale che ha messo a serio rischio il patrimonio dell'Abbazia di San Vincenzo al Volturno era stato ampiamente previsto nel luglio scorso, quando, facendomi carico del problema, mi sono recato nell'area archeologica per verificare di persona i danni che i lavori, allora in corso, avevano arrecato all'antico ponte Della Zingara e ad altri reperti murari", così il Consigliere. Che aggiunge: "II pericolo che l'acqua invadesse l'area archeologica era estremamente palese, ma non per coloro che non lo volevano ammettere e che, per pura presunzione, non si sono attivati per scongiurare peggiori danni". Pertanto D'Ambrosio ha presentato al Consiglio Regionale una mozione che mette in evidenza l'incompetenza e la negligenza di quei Responsabili della Soprintendenza per i Beni Culturali del Molise che non hanno evitato il disastro e ha presentato appello al Ministro dei Beni Culturali, l'onorevole Rocco Buttiglione, che è già stato informato sugli ultimi episodi, affinchè sia aperta un'inchiesta su quanto accaduto. Obiettivo: fare in modo che eventi analoghi non si ripetano di nuovo. Contestualmente il Consigliere ha inteso sollecitare il Soprintendente, invitandolo a "non trincerarsi dietro la provvisorietà dell'incarico, né tanto meno dietro le difficoltà burocratiche, bensì a procedere nel prendere gli opportuni provvedimenti nei confronti degli irresponsabili che hanno causate il disastro e ad impegnarsi nel tutelare e valorizzare il patrimonio culturale e archeologico molisano"."Gli errori che hanno fatto sì che l'acqua invadesse gli scavi archeologici - ha dichiarato infine Antonio D'Ambrosio - rappresentano un'offesa al buon senso, un oltraggio ai molisani e uno sberleffo al patrimonio del bene pubblico, ed è tempo di poni rimedio". E' ora, infatti, che i molisani e i loro rappresentanti sappiano cogliere l'importanza che i beni pubblici di valore storico possono rappresentare in una prospettiva di rilancio economico e sociale del territorio. Una tesi questa, sempre più di moda nelle regioni italiane, ma ancora poco ben assimilata dai diversi contesti, siano essi provinciali, comunali o regionali. D'altra parte, quale potrebbe essere l'utilità di eventuali piani turistici regionali se prima non si ha l'assoluta certezza della tutela dei beni archeologici presenti nei nostri territori?M.M.