sabato 20 ottobre 2007

Storie di donne stressate

Li amavano, tanto. E tanto tempo passavano in casa con loro. Li hanno lavati, imboccati, abbracciati. Infine, li hanno uccisi. Giusy e Annamaria, vere Medea del nuovo millennio, hanno vissuto, con drammatiche conseguenze, quel momento di follia che trasforma una persona comune nel più efferato criminale, cioè in colui che uccide la carne della propria carne, il sangue del proprio sangue, con convinzione ma senza pensarci due volte. Quella lucida follia, che qualcuno chiama giustamente depressione, emerge dalle affermazioni di Giusi Griffo, trent'anni, di Vinovo (Torino)che, dopo aver ucciso sua figlia, lo scorso 16 ottobre, ha raccontato: "L'ho guardata, lei non smetteva di saltare. Ho sentito dei fantasmi nella mia testa. Poi un sentimento di liberazione. Sì, mi sono sentita libera". L'ha gettata dal balcone, la sua piccola Melania, 5 anni. Ore e ore di interrogatorio poi l'ammissione, le lacrime davanti ai carabinieri. Annamaria Franzoni, invece, nonostante una condanna a 16 anni per l'omicidio del suo piccolo Samuele, ancora oggi, dopo la lettura delle motivazioni che spinsero i Giudici torinesi, lo scorso 27 aprile, a dichiararla colpevole, dice : "No, non posso accettare. Continuano ad attribuirmi la morte di Samuele dicendo che ero stressata dalla mia famiglia. Non è vero, non sono mai stata stressata, tanto meno dai figli". Chi ammette, chi si difende. Nonostante il diluvio mediatico che si è abbattuto sul delitto di Cogne e la conseguente decisione della Franzoni di creare un ufficio stampa per gestire la sua "immagine" e l'altra decisione, tristemente glam, di affidare il tutto nelle mani dell'avvocato Taormina, nonostante tutte queste scelte, le lacrime da Costanzo e un paese diventato meta turistica a causa della villetta insanguinata, è difficile giudicare ancora più colpevole Annamaria. Perché in fondo la mano assassina è quella di una donna, come nel caso di Giusy, sola, schifosamente sola, incapace di aiutare e di aiutarsi, di amare e di essere amata. C'è quel nodo, nella testa e nel cuore, che nessuno comprende, perché oggi il "fallimento" personale non deve essere raccontato, non deve diventare pubblico. Deve restare nascosto e deve essere risolto soltanto nelle pieghe della solitudine familiare. E se la famiglia non vede, ci penserà la lucidità e il lampo della pazzia a far venire fuori quello che nessuno può immaginare. I riflettori delle telecamere faranno il resto. E così, come sempre, tutto quello che conta davvero, sarà dimenticato.

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